Buon Nata­le

L’ho qua­si per­so di vista il pan­zo­ne vesti­to di ros­so. Lo seguo ormai da un’o­ra men­tre vaga tra un sec­chio­ne e l’al­tro rovi­stan­do tra gli scar­ti dei rega­li. Schi­fo­so. Que­sta vol­ta deve esse­re lui, que­sta vol­ta la paghe­rà, que­sta vol­ta le mie figlie smet­te­ran­no di urlar­mi nel­le orec­chie. Il tem­po non gua­ri­sce tut­te le feri­te ma di sicu­ro aiu­ta ad affi­na­re le tec­ni­che e a sco­pri­re le abi­tu­di­ni. Col tem­po ho impa­ra­to qua­l’è il momen­to miglio­re per tro­var­li più debo­li e indi­fe­si. Ce ne sono schie­re inte­re, male­det­ti bab­bi nata­le, ma il ven­ti­sei dicem­bre li tro­vi qua­si tut­ti lì a rovi­sta­re nei bido­ni, a bere e impre­ca­re col mon­do irriconoscente.
Io ne cer­co uno in par­ti­co­la­re, non fos­se­ro sta­ti tut­ti ugua­li avrei fini­to anni fa. All’i­ni­zio ave­vo qual­che dub­bio ma cre­do che sia una stra­te­gia, è tut­to orga­niz­za­to per svia­re le trac­ce e con­fon­de­re chiun­que, me in que­sto caso, si fos­se mes­so seria­men­te alla ricerca.
Il pan­zo­ne mi deve aver visto, smet­te di bar­col­la­re e guar­da dal­l’al­tra par­te del­la stra­da nel­la mia dire­zio­ne. Poi a pas­so spe­di­to si infi­la nel vico­lo di fian­co al mini­mar­ket cinese.
Attra­ver­so la stra­da, non voglio per­der­lo. Non ha il sac­co con se, non lo han­no qua­si mai il ven­ti­sei. Nes­sun sac­co dal qua­le estrar­re un accet­ta da pom­pie­re, ros­sa come il vestito.
Era­no così con­ten­te di veder­lo, per nien­te stu­pi­te di que­st’e­nor­me cic­cio­ne nel nostro salot­to a not­te fon­da. Bar­ba bian­ca, vesti­to di ros­so con un sac­co sul­le spal­le. La not­te di nata­le. A cin­que anni non ti stu­pi­sci se tro­vi Bab­bo Nata­le in casa la not­te di nata­le, nor­ma­le, te lo aspet­ti. E’ da adul­to che la cosa non tor­na, quel­lo che ti aspet­ti men­tre scen­di la sca­la e intra­ve­di il tizio e le tue figlie è tut­t’al­tro. Quel­lo che ti aspet­ti, che sai, è che quel­lo sia un peri­co­lo. Te lo dico­no i cas­set­ti del­l’ar­gen­te­ria a ter­ra, l’a­lo­ne scu­ro sul­la pare­te dove sta­va il tele­vi­so­re, il cavo di ali­men­ta­zio­ne del por­ta­ti­le sul tavo­lo che in quel momen­to ali­men­ta­va il nulla.
Le cer­tez­za del peri­co­lo uscì fuo­ri dal sac­co in for­ma di accet­ta da pom­pie­re, ros­sa, into­na­ta al vesti­to. Urlai e le bam­bi­ne si gira­ro­no. Cer­cai di rag­giun­ger­le men­tre l’ac­cet­ta descri­ve­va un oriz­zon­te ros­so sul­le loro schie­ne. Urla­ro­no. Gli ulti­mi gra­di­ni li sal­tai. Ero a due pas­si da loro, la giu­sta distan­za per vede­re con chia­rez­za il dop­pio arco di goc­ce di san­gue lascia­te dal­la lama nel­l’a­ria men­tre si alza­va e abbas­sa­va su di loro.
Oggi però il sac­co non l’a­ve­va. Non l’a­ve­va­no qua­si mai. Mi infi­lo nel vico­lo e lo vedo. Affac­cia­to nel cas­so­net­to di un risto­ran­te che rovi­sta. Mi ero chie­sto all’i­ni­zio come fos­se pos­si­bi­le esse­re così gras­si man­gian­do avan­zi e rifiu­ti. Una del­le tan­te cose impos­si­bi­li che li ho visti fare negli anni, come cade­re in un cas­so­net­to e spa­ri­re, scen­de­re in tom­bi­ni in cui non pas­se­reb­be un bam­bi­no, divo­ra­re il con­te­nu­to di un bido­ne com­pre­se car­tac­ce e bottiglie.
Mi ha visto. Ha un’a­ria pre­oc­cu­pa­ta, ormai devo esse­re famo­so tra loro. Il kil­ler dei bab­bi nata­le mi han­no chia­ma­to i gior­na­li. Ogni ven­ti­sei ne pren­do qual­cu­no. Negli ulti­mi anni è diven­ta­to più dif­fi­ci­le, se lo aspet­ta­no, si sono fat­ti sospet­to­si. Infat­ti quel­lo pro­va ad arram­pi­car­si sul cas­so­net­to, se si but­ta den­tro lo per­de­rò. Scat­to e arri­vo nel momen­to in cui lui rie­sce a sbi­lan­ciar­si ver­so l’in­ter­no. Rie­sco a tirar­lo giù ma c’è qual­co­sa che non va, mi sem­bra trop­po leg­ge­ro. Lo sbat­to a ter­ra e quel­lo comin­cia a pia­gnu­co­la­re. Non è nor­ma­le, di soli­to rin­ghia­no e sba­va­no come bestie. Que­sto sin­ghioz­za come un chi­hua­hua castra­to. Gli affer­ro la bar­ba e tiro, vie­ne via faci­le, l’e­la­sti­co che la tene­va che gli fru­sta le orec­chie e lo fa pia­gnu­co­la­re anco­ra. Mer­da. Que­sto è solo un coglio­ne tra­ve­sti­to. Avrei dovu­to capir­lo. Il vesti­to è pure del ros­so sbagliato.
Non è lo stes­so che ho visto entra­re nel vico­lo. Mi guar­do intor­no, nes­su­no. Gli chie­do se ha visto un’al­tro bab­bo nata­le in giro. Pia­gnu­co­la. Glie­lo richie­do, accom­pa­gnan­do gen­til­men­te la doman­da con un pugno in fac­cia. Allun­ga il brac­cio e indi­ca una por­ta soc­chiu­sa poco più avanti.
Que­sto è solo un nor­ma­lis­si­mo bar­bo­ne, non meri­ta la mor­te ma gli fac­cio pas­sa­re la voglia di indos­sa­re quel vesti­to. Lo lascio in tin­ta uni­ta, ros­so il vesti­to, ros­sa la pel­lic­cia sin­te­ti­ca, ros­sa la sua fac­cia pesta.
Dal­la por­ta non è usci­to nes­su­no quin­di lui è anco­ra den­tro oppu­re si già infi­la­to in chis­sà qua­le buco. Apro pia­no. Den­tro è scu­ro, l’u­ni­ca luce quel­la del vico­lo che entra dal­la por­ta. Cen­ti­na­ia di vesti­ti, cami­ce, pan­ta­lo­ni insac­ca­ti e appe­si a bina­ri sul sof­fit­to. Deve esse­re il retro del­la lavan­de­ria. Qual­co­sa gor­go­glia dal­la pare­te oppo­sta. Lo vedo e ne sen­to la puz­za di vino, rus­sa su un muc­chio di pel­lic­ce in un ango­lo. Com­ple­ta­men­te ubria­co, for­se l’u­ni­ca cosa che li col­pi­sce dav­ve­ro, oltre ad una buo­na e pesan­te lama, è l’al­col. Strin­ge anco­ra la bot­ti­glia in mano. Sfi­lo il mache­te dal cap­pot­to, con­trol­lo il filo. C’è un ordi­ne da segui­re, per evi­ta­re rischi. Pri­mo le gam­be, non devo­no poter scap­pa­re, ne inse­guir­ti o scal­ciar­ti. Poi le brac­cia, tra la for­za e le unghie pos­so­no esser peri­co­lo­si. Infi­ne un bel col­po di piat­to sui den­ti per far­gli sal­ta­re que­gli inci­si­vi taglien­ti come lamette.
Alzo il mache­te miran­do alle rotu­le ma lo stron­zo in ros­so è sve­glio. Vedo la bot­ti­glia vola­re ver­so il mio vol­to fac­cio appe­na in tem­po ad alza­re l’ar­ma per inter­cet­tar­la. Chiu­do gli occhi men­tre le scheg­ge di vetro mi sfrec­cia­no intor­no. Sen­to il san­gue che mi sgoc­cio­la sul col­lo. Quan­do ria­pro gli occhi lui è in pie­di a due metri da me con i pugni che si apro­no e si chiu­do­no. Scat­ta in avan­ti arti­glian­do l’a­ria con unghie lun­ghe e gial­la­stre. E’ for­te come un toro ma agi­le come un pin­gui­no obe­so, mi spo­sto di lato e mi abbas­so. Lui mi supe­ra di due pas­si e allo­ra mi giro e rie­sco a dare due col­pi pre­ci­si die­tro al ginoc­chio. I lega­men­ti cedo­no e lui crol­la a fac­cia avan­ti. Gli sal­to sul­la schie­na e col­pi­sco con tut­ta la for­za su entram­be le spal­le. Rin­ghia e sba­va. Nem­me­no un lamen­to. Mi ingi­noc­chio sul­la sua schie­na. Lui ruo­ta la testa per guar­dar­mi. Ruo­ta. Fino a girar­la com­ple­ta­men­te. Anco­ra una vol­ta vedo il suo viso rubi­con­do. La fol­ta bar­ba can­di­da, le guan­ce ros­se e gli occhi alle­gri. Un bab­bo nata­le per­fet­to, sem­bra usci­to da una pub­bli­ci­tà. Se non sof­fias­se e rin­ghias­se come una lin­ce in gab­bia. Gli chie­do se si ricor­da di me, strin­ge gli occhi e smet­te di rin­ghia­re. Mi rico­no­sce. Lo fan­no tut­ti. Tut­ti loro ricor­da­no, tut­ti loro sono lo stes­so bastar­do che ha mas­sa­cra­to la mia fami­glia, lo stes­so. Sen­to che le sue gam­be rico­min­cia­no a muo­ver­si, si ripren­do­no in fret­ta i bastar­di. Si rige­ne­ra­no o qual­co­sa del gene­re. Ma pos­so­no mori­re, basta non fer­mar­si e andar­ci pesan­te. E tan­to mi basta. Gli calo il mache­te con tut­ta la for­za che ho sul vol­to rin­ghian­te. Comin­cia a sus­sul­ta­re. La lama lascia archi di san­gue nel­l’a­ria e sui vesti­ti del­la lavan­de­ria. Col­pi­sco. Col­pi­sco fino a quan­do il viso gli diven­ta una pol­ti­glia e con­ti­nuo. Al ros­so si mischia il bian­co del­le ossa. Col­pi­sco, sca­vo il cer­vel­lo fino a quan­do smet­te di muo­ver­si. Dal cap­pot­to estrag­go il ter­mos che ho modi­fi­ca­to appo­sta. Lo stap­po e l’o­do­re di uova mar­ce avvol­ge subi­to il loca­le. Cospar­go quel che rima­ne del­la sua testa di aci­do, l’ho impa­ra­to dopo che ci ero anda­to trop­po leg­ge­ro col nume­ro sei.
Sfri­go­la e fuma, la puz­za è atro­ce ma non me la per­de­rei mai. Le urla del­le mie figlie si attu­ti­sco­no nel­le mie orec­chie. I gior­na­li mi attri­bui­sco­no ven­ti­tré vit­ti­me, sul mio tac­cui­no segno la nume­ro qua­ran­tot­to. Oggi ne ho tro­va­to solo uno, si stan­no facen­do fur­bi o io trop­po stan­co per cac­cia­re. Comun­que que­st’an­no è anda­ta così, mi rifa­rò al pros­si­mo Nata­le quan­do le urla tor­ne­ran­no a sve­gliar­mi la notte.

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