In pun­ta di forchetta

Una for­chet­ta. Per­ché no? Una for­chet­ta sareb­be sta­ta per­fet­ta. La pri­ma per­so­na a sui­ci­dar­si a for­chet­ta­te. La giu­sta fusio­ne tra ridi­co­lo e tra­gi­co. Quel­li del talent show ne sareb­be­ro sta­ti entu­sia­sti e il pub­bli­co era sicu­ra­men­te stan­co di gen­te ful­mi­na­ta, di voli sul­l’a­sfal­to, di lamet­te e pistole.
Dis­si al bari­sta di ver­sar­mi un’al­tra pin­ta e riles­si i modu­li d’i­scri­zio­ne. Una sem­pli­ce libe­ra­to­ria e avrei esau­di­to i miei due uni­ci desi­de­ri: por­re fine alla mia vita in manie­ra spet­ta­co­la­re e tira­re un col­po bas­so alle iene con le qua­li con­di­vi­de­vo una fra­zio­ne signi­fi­ca­ti­va di geni. Sì per­ché ave­vo inten­zio­ne di dona­re il com­pen­so del pro­gram­ma alla cau­sa più inu­ti­le e ridi­co­la che riu­scis­si a tro­va­re. Ne ave­vo valu­ta­te mol­te e ormai la scel­ta era tra il finan­zia­re un gene­ra­to­re orgo­ni­co anti scie chi­mi­che alle iso­le Sval­bard o il Cen­tro di Rie­du­ca­zio­ne Vega­na per Leo­ni in Kenya. Uno vale­va l’al­tro ma quel­lo che con­ta­va era che il milio­ne di euro per il mio sui­ci­dio non arri­vas­se mai alla mia famiglia.

Sco­lai la ter­za pin­ta, o for­se la quar­ta, e fir­mai i modu­li per Italia’s Got Sui­ci­de. Salu­tai il bari­sta pri­ma che mi cac­cias­se e tor­nai bar­col­lan­do a casa. Arri­va­to scan­ne­riz­zai i docu­men­ti e li inviai alla reda­zio­ne. Poi crol­lai a let­to con anco­ra i vesti­ti addos­so per la mia ulti­ma not­te di sonno.
Il mat­ti­no suc­ces­si­vo mi sve­gliai con la sen­sa­zio­ne che la testa potes­se esplo­der­mi da un momen­to all’al­tro. Mi con­so­lai pen­san­do che quel­lo sareb­be sta­to anche il mio ulti­mo mal di testa e quel pen­sie­ro riu­scì qua­si a far­lo diven­ta­re gradevole.
Dal­la reda­zio­ne mi chia­ma­ro­no per dir­mi che il “Pro­get­to For­chet­ta”, come lo ave­vo pre­sen­ta­to, era sta­to appro­va­to e che mi sarei dovu­to pre­sen­ta­re agli stu­di entro le dician­no­ve. Ave­va­no pre­vi­sto una diret­ta per le ore ven­ti e tren­ta. Sui­ci­dio da pri­ma sera­ta! Non riu­sci­vo qua­si a cre­der­ci. Imma­gi­nai con sod­di­sfa­zio­ne l’in­vi­dia del­la mie sorel­le, che ave­va­no dato il culo ad alme­no metà dei dipen­den­ti del­la rete sen­za risultati.
Ulti­ma cola­zio­ne. Ulti­mo pran­zo. Ulti­ma sega. Ulti­ma doc­cia. Ulti­ma cena con un tra­mez­zi­no del bar sot­to gli stu­di televisivi.
C’e­ra qual­co­sa di misti­co, spi­ri­tua­le. Tut­te quel­le cose fat­te con la con­sa­pe­vo­lez­za che ognu­na fos­se l’ul­ti­ma. Sta­vo bene e anche il mal di testa era anda­to via.
Mi pre­sen­tai pun­tua­le e fui subi­to seque­stra­to da un eser­ci­to di truc­ca­to­ri e sar­ti. Deci­se­ro che avrei vesti­to con pan­ta­lon­ci­ni cor­ti e una sem­pli­ce magliet­ta, in tes­su­to facil­men­te strap­pa­bi­le e bian­co che avreb­be esal­ta­to il colo­re del san­gue. Mi mise­ro anche uno sgra­de­vo­le “tap­po” nel­l’a­no per evi­ta­re pro­ble­mi nel tra­pas­so: il san­gue in pri­ma sera­ta pia­ce al pub­bli­co, la mer­da no.
Scel­si di usa­re la for­chet­ta che ave­vo por­ta­to da casa, con reb­bi lun­ghi e sot­ti­li. Un bel­lo spet­ta­co­lo. Avrei dovu­to solo pre­sta­re atten­zio­ne a col­pi­re le arte­rie il più tar­di possibile.
Per la diret­ta ave­va­no scel­to la “Stan­za Bian­ca”. Quel­la che sem­bra­va usci­ta da un film di fan­ta­scien­za: nien­te arre­da­men­to, pare­ti, sof­fit­to e pavi­men­to can­di­di. Non avrei potu­to esse­re più d’ac­cor­do visto che mi avreb­be posto total­men­te al cen­tro del­la sce­na e sen­za distra­zio­ni per lo spet­ta­to­re. Solo io e la mia forchetta.
L’as­si­sten­te mi fece entra­re nel­la stan­za. Il cuo­re mi sal­tò un bat­ti­to quan­do mi vol­tai e, attra­ver­so la por­ta che si chiu­de­va, mi sem­brò di vede­re mia madre con le mie due sorel­le. Fu solo una fra­zio­ne di secon­do pri­ma che la por­ta si chiu­des­se fon­den­do­si nel­la parete.
Anco­ra pri­ma che riu­scis­si a chie­der­mi se dav­ve­ro le aves­si viste la voce del pre­sen­ta­to­re esplo­se nel­la stan­za. Il copio­ne era sem­pre lo stes­so. Nome, pro­fes­sio­ne, una ver­sio­ne arric­chi­ta del­la mia vita e del­le ragio­ni che mi ave­va­no por­ta­to a por­re fine alla mia vita. Quan­do arri­vò la doman­da su chi sareb­be sta­to il bene­fi­cia­rio del pre­mio sui­ci­dio non potei trat­te­ne­re una mez­za risa­ta. Leo­ni vega­ni. A mia madre sareb­be venu­to un col­po. In effet­ti ci speravo.
Le luci si spen­se­ro. Uno spot mi ven­ne pun­ta­to addos­so e io estras­si la for­chet­ta dal­la tasca. Esi­tai, ma non per pau­ra. Sape­vo che gli anti­do­lo­ri­fi­ci con cui mi ave­va­no imbot­ti­to non mi avreb­be­ro fat­to sen­ti­re il dolo­re ma il sospet­to che fos­se­ro vera­men­te mia madre e le mie sorel­le quel­le che ave­vo intra­vi­sto mi infa­sti­di­va e insospettiva.
Comun­que comin­ciai a infor­chet­tar­mi la pan­cia e il pet­to con que­sto tar­lo nel cervello.
Attac­cai cosce e pol­pac­ci ripe­ten­do­mi di aver visto male. Strap­pai via magliet­ta e pan­ta­lon­ci­ni lascian­do­li a ter­ra nel­la poz­za di san­gue che si allar­ga­va len­ta­men­te. Ave­vo in men­te un fina­le col bot­to, qual­co­sa che avreb­be man­da­to il pub­bli­co in visi­bi­lio. Alzai in alto la for­chet­ta e con un uni­co affon­do strap­pai via pene e testi­co­li. Ormai per­de­vo san­gue a fiot­ti e capii che era il momen­to di chiudere.
Con tre col­pi velo­ci squar­ciai l’ar­te­ria caro­ti­dea. Gli anti­do­lo­ri­fi­ci e la con­sa­pe­vo­lez­za di una fine desi­de­ra­ta rese tut­to pia­ce­vo­le. Men­tre mi afflo­scia­vo, però, vidi la por­ta del­la Stan­za Bian­ca aprir­si e mia madre cor­re­re den­tro con la miglio­re fin­zio­ne di dolo­re che aves­se mai reci­ta­to. Poi calò il buio.
Mi sve­gliai attac­ca­to ad una quan­ti­tà di tubi. Tubi che usci­va­no dal naso, dal pet­to, dal­la boc­ca, dal culo e anche da quel­lo che rima­ne­va dei geni­ta­li. Sen­ti­vo il ron­zio debo­le del­le mac­chi­ne che mi tene­va­no in vita. Non è pos­si­bi­le pen­sai. Il con­trat­to era chia­ro: nes­su­na ria­ni­ma­zio­ne. Mai.
La voce di mia madre sedu­ta vici­no a me mi get­tò nel­l’a­bis­so definitivo.
“Ieri sera eri ubria­co. Hai dimen­ti­ca­to di fir­ma­re uno dei moduli.”
Riu­scii a mugo­la­re una pro­te­sta nel tubo che ave­vo in gola, mia madre riu­scì a capi­re cosa dicevo.
“Cer­to che la rete tele­vi­si­va lo sape­va. Devi capir­li, gli ascol­ti sono in calo e una mam­ma che sal­va in extre­mis il figlio da un bru­ta­le sui­ci­dio gli è sembrata…anzi ci è sem­bra­ta una buo­na idea.”
Ten­tai di muo­ver­mi ma robu­ste cin­ghie mi trat­te­ne­va­no mani e piedi.
“No teso­ro, i tuoi leo­ni non avran­no il milio­ne e con­ti­nue­ran­no a man­gia­re car­ne. Lo avre­mo noi, io e le tue sorel­le. La rete ce lo ha dona­to sai?”
Cer­cai di scuo­ter­mi ma mia made allun­gò la mano ver­so la fle­bo aumen­tan­do la dose di nar­co­ti­ci. Sci­vo­lai in un tor­po­re vigile.
“Tran­quil­lo amo­re di mam­ma. Ades­so ti accen­do la tv: le tue sorel­le han­no final­men­te otte­nu­to la par­te per quel rea­li­ty sul por­no. Non vor­rai mica perdertelo?”
La sigla di Italia’s Got Anal accom­pa­gnò mia madre alla por­ta. Pri­ma di usci­re si vol­tò e mi rivol­se una ter­ri­fi­can­te espres­sio­ne divertita.
“Teso­ro lo show dura ven­ti­quat­tro ore su ven­ti­quat­tro e tu non mori­rai. Me lo ha det­to il dot­to­re. Alme­no fin­ché non stac­che­re­mo le macchine.”
Poi chiu­den­do la por­ta aggiun­se “Ma non le staccheremo.”

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