Era morto soffocato. Lo spuntino di mezzanotte a base di olive piccanti gli era stato fatale. Aveva aspettato che il resto della famiglia andasse a dormire per godersi una maratona di film di Tarantino. Le Iene in versione integrale che avevano trasmesso era tutt’altro che integrale e la rabbia di aver aspettato inutilmente fino all’una di notte gli aveva mandato una grossa oliva di traverso. Un’agonia. Nel timore di svegliare o spaventare moglie e figlio, era morto in silenzio.
Quello che non ricordava era di essere tornato a letto, di essersi spogliato e messo a dormire.
Per fortuna in casa adesso non c’era nessuno, si era preso un giorno di ferie per la maratona di film e Arianna era uscita per accompagnare i loro figli a scuola. Poi sarebbe andata al lavoro. Quindi aveva tutto il giorno per esaminare la situazione.
Era sicuro di dover provare qualcosa di forte e spiacevole per quella situazione assurda: tipo paura, rabbia, disperazione. Avvertiva queste emozioni ma come attraverso un vetro opaco. Sarà l’effetto della morte, pensò. Un alito di tristezza lo raggiunse quando si chiese come avrebbero reagito Arianna e i bimbi alla sua morte. Gli avrebbero fatto un funerale?
Poi si immaginò chiuso nella cassa e lo raggiunse la prima vera emozione da quando era morto: il panico. Lui era sveglio, cosciente; non potevano chiuderlo in una cassa. E se lo avessero cremato? In fondo lo aveva scritto nel testamento. No, doveva fare qualcosa, aveva bisogno di pensare. Decise di non restare a casa, gli serviva un posto tranquillo dove riflettere. Il parco vicino al fiume sarebbe stato perfetto, durante le mattine feriali era deserto, al massimo qualche vecchietta col cane.
La sua immagine allo specchio non gli sembrava peggio del solito. Era sempre stato pallido e alle sue occhiaie nessuno faceva caso. Meglio così, pensò, non gli sarebbe piaciuto assomigliare a uno di quei morti viventi che si vedono in tv. Tutti rotti, zoppicanti e sempre affamati di carne umana.
Si preparò la colazione ma scoprì di non avere fame. Nemmeno sete. Lasciò la tazza di latte caldo e uscì. Lo preoccupava la sua sopravvivenza a lungo termine. Gli zombi nei film fanno sempre una brutta fine. Sempre con la testa spappolata. E se poi, nonostante la testa spappolata, non fosse morto definitivamente? Sarebbe finito a vagare incosciente con un moncherino di cranio al posto della testa?
C’era uno strato di ghiaccio sui vetri delle auto parcheggiate. Ma non sentiva freddo. Si fermò davanti a un tabaccaio in cui non entrava da quando aveva smesso di fumare. Il negoziante, un immigrato arabo dallo sguardo spento, lo fissava da dietro al bancone. Entrò, in fondo era morto e poteva pure ricominciare a fumare senza preoccuparsi troppo. Sperava che la nicotina avesse ancora quell’effetto rilassante che ricordava. Si avvicinò al bancone e provò a chiedere un pacchetto di sigarette. Dalla sua bocca non uscì un suono. Anche un gemito di frustrazione gli si bloccò in gola. L’oliva. Aveva ancora l’oliva bloccata nella trachea. Si sentì perso. Come avrebbe potuto nascondere la sua condizione senza parlare, senza poter nemmeno far finta di respirare. Uscì dal negozio camminando all’indietro. Il tabaccaio continuava a guardarlo senza espressione.
Cercò di tossire, di liberarsi da quella ostruzione. Doverlo fare senza dare troppo nell’occhio, non fu facile ma dopo qualche tentativo sputò l’oliva mortale sul palmo della sua mano. Alzò lo sguardo verso il negoziante che continuava a fissarlo inespressivo. Un pacchetto di sigarette era comparso sul bancone ma non riusciva a distogliere l’attenzione da quello sguardo. Spento. Senza vita. Era sempre stato così? Javhed, se ricordava bene il nome, non gli era mai sembrato molto vivace ma oggi era davvero… davvero…
La parola giusta gli arrivò come una frustata di ghiaccio. Era morto. Molto morto. Era morto come lui, ma in qualche modo era anche diverso. Poteva avvertire una specie di ferocia celata dietro quello sguardo spento, una scintilla che gli bruciava dentro quando gli occhi nocciola si spostavano per un attimo su qualche passante vivo fuori dal negozio. Fortuna che sono morto, pensò. Afferrò il pacchetto di sigarette, lasciò dieci euro sul bancone senza aspettare il resto.
Con le sigarette in una mano e un accendino nell’altra si avviò in direzione del parco. Allora c’erano altri come lui in giro! Doveva temerli o doveva considerarli suoi alleati? Iniziò a guardarsi intorno senza sapere nemmeno cosa cercare. Passò davanti a una fermata dove una dozzina di pendolari aspettavano l’autobus. Tutti ignorarono il suo passaggio tranne un paio: un tizio tracagnotto in giacca e cravatta con l’aspetto da impiegato tipo e una ragazza che assorta su un libro girato sottosopra. Superò il gruppo chiedendosi perché quei due lo avessero guardato. Si voltò e i due lo stavano ancora osservando. L’alito dei pendolari si condensava nell’aria fredda al ritmo del loro respiro. Dalla ragazza e dall’impiegato non usciva vapore. Morti? Fece per tornare indietro, subito l’impiegato distolse lo sguardo facendo finta di controllare qualcosa sul telefonino mentre la ragazza gli fece un lieve cenno di no con la testa e si dedicò al libro. Lui si avvicinò lo stesso. La ragazza era la più vicina. Provò un semplice: «Ciao.»
Era agitata. Alcuni pendolari cominciarono a voltarsi verso di loro. Gli sembrò che si muovessero al rallentatore. Lei lo prese per un braccio.
«Ehi, ciao!» Gli disse col tono di chi incontra un vecchio amico. Lui si lasciò trascinare lontano dalla fermata. Dopo qualche decina di metri, fermi davanti a un supermercato chiuso lei gli sussurrò feroce: «Ma sei completamente scemo ad andare in giro così? Ci farai finire male tutti!»
Era confuso, qualcosa dentro di lui si scosse. Perché lo aggrediva così? Come si permetteva?
«Sei nuovo vero? Guardati,» gli prese la testa tra le mani e la girò in direzione della vetrina «e datti una calmata.»
Quando vide il suo riflesso capì che sul viso aveva ancora l’espressione di terrore che aveva preso dal tabaccaio. Gli ci volle una certa concentrazione per coordinare i muscoli facciali in quella che sperò fosse un’accettabile espressione neutra.
«Così va meglio. Non possiamo farci scoprire.»
La sensazione delle mani di lei sul viso era inebriante e distante allo stesso tempo. Continuò a sentire un formicolio sulle guance anche dopo che lei le aveva tolte. Non c’era rabbia, né bramosia di alcun genere negli occhi di lei.
«Grazie – le disse.»
«Non fa niente. Capita a tutti i primi tempi, però devi stare attento.»
«Sono morto ieri sera, non so che fare.»
«Imparerai, lo fanno tutti. Resta sempre tranquillo, non ti arrabbiare e tieni lo sguardo basso. I vivi, se facciamo così, non ci notano.»
Poi lo salutò e lo lasciò a domandarsi se anche i morti si innamorano.
Continuò a camminare sovrappensiero fino a quando sentì il rumore della ghiaia sotto le suole. Era arrivato al parco, proseguì lungo il sentiero fino a una panchina sulla riva del fiume. Ci aveva portato anche i bambini in quel parco, a loro piaceva far finta di essere pescatori. Fino al giorno in cui Arianna gli aveva detto che non voleva che i figli giocassero con gli ami da pesca perché si sarebbero potuti far male. Lui l’aveva rassicurata, in realtà facevano finta di pescare perché non metteva gli ami ma solo delle palline di pane sul filo. “Ma il fiume è pericoloso e potrebbero annegare” aveva ribattuto lei e gli aveva proibito di portarceli.
Sentiva la tristezza per quella vita persa, una tristezza lontana e ovattata. Arianna non era più importante. Neanche i bambini erano importanti. L’unica cosa importante era rimanere interi fino a… Fino a quando? Si chiese. Fino a cosa? L’abbaiare stizzoso di un cane lo riportò al presente. Un barboncino lo stava caricando. Doveva essere sfuggito a qualcuno. Si guardò in giro: nessuno. Il cane si fermò a pochi passi continuando ad abbaiare e ringhiare. Ma perché ce l’aveva con lui? Provò un approccio, aveva sempre funzionato. Si accovacciò e tese la mano
«Ehi calma!» fece in tempo a dire prima che la piccola belva si lanciasse in avanti piantandogli i denti nella mano. Con l’altra mano assestò un ceffone sul muso del cane che guaì e mollò la presa. I canini gli avevano bucato il palmo della mano. Notò che non sanguinava. Un istante dopo il barboncino tornò alla carica.
Cominciò a correre, si sentiva ridicolo ma si rendeva conto che ogni ferita era un cartello con scritto Questo è morto e lui doveva passare inosservato. Era veloce il maledetto e non lo mollava. Il fiume! Anche se fosse affondato lui non poteva certo annegare e se anche il barboncino si fosse gettato, magari con un po’ di fortuna, sarebbe finito in qualche gorgo. Si tuffò.
Riguadagnò la riva dopo un paio di chilometri non lontano da casa. Anche se era fradicio le uniche volte che qualcuno lo aveva guardato strano era bastato un “Sono caduto nel fiume” per tornare anonimo. Tutti continuavano a ignorarlo come prima, solo che adesso in più era zuppo e anche morto.
Davanti casa fece per infilare le chiavi nella toppa quando la porta si aprì. Arianna era tornata in anticipo. Lo guardò sgocciolare sul pianerottolo più scocciata che altro.
«Che è successo?»
«Sono caduto nel fiume.»
«Ho invitato Marta a cena. – posò due buste di spesa in terra. – Viene anche suo marito.»
Lui si diresse in bagno e cominciò a togliersi i vestiti fradici. Si mise qualche goccia di attaccatutto su uno dei buchi fatti dai morsi del cane e avvicinò i lembi di carne. Aspettò qualche secondo. Teneva. Perfetto. Ripeté l’operazione anche per gli altri buchi. Dalla cucina gli arrivò la voce di sua moglie.
«Lo so che Daniele non ti piace ma Marta è un’amica. Resisterai?»
Aveva sempre pensato che quello era uno stronzo, un amorfo qualunquista col QI di un vaso di petunie e la vitalità di un bradipo impagliato. Curiosamente adesso trovava la prospettiva di vedere Daniele stimolante, forse per confrontarlo col suo stato di morto recente.
«Posso farcela, sarò tranquillo.»
«Grazie.» gli si avvicinò e gli diede un bacio sulla guancia «Ma sei gelato, non è che ti sei ammalato?» poi senza neanche aspettare la risposta «I bimbi dormono dai miei e domani li portano loro a scuola.»
Lui passò il resto del pomeriggio sul divano mentre la moglie spadellava furiosamente fino a quando suonò il campanello. Andò lui ad aprire la porta. Tutti i centodieci chili di Marta si riversarono irruenti ad abbracciare Arianna tra gridolini e risatine. Lui guardò Daniele, ammirando la scorta di cibo che aveva sposato poi, ignorati dai vivi, si salutarono come viene spontaneo tra morti. Con indifferenza.
Posso essere soddisfatto del risultato. Il racconto frutto del corso base di narrativa della Scuola di scrittura Omero è stato pubblicato sul loro blog. Leggetevelo e fatemi sapere cosa ne pensate.
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