Mi tirai su il bavero del giaccone per ripararmi dall’umida alba di Casal Palocco, mentre osservavo dal giardino i due cadaveri raffreddarsi sul nostro divano. Il gas aveva funzionato regolarmente. Anche se non erano realmente loro, anche se non erano altro che copie, vedere i volti dei propri cari morti tutte le mattine è sempre una cosa che scuote dentro. Non mi ci abituerò mai.
Mia moglie e mio figlio tornarono dal garage con i tre sacchi per cadaveri col logo del comune. La legge era chiara «Ogni cittadino è personalmente responsabile del corretto smaltimento dei propri simulacri».
Feci partire l’impianto di ventilazione col telecomando e dopo un paio di minuti entrammo. L’impianto Ziklon era costato parecchio ma considerando l’alternativa era valso ogni euro speso. Non è piacevole eliminare le copie e doverlo fare di persona può essere traumatico. L’ingegner Moneta, il nostro vicino, non ha mai voluto un impianto Ziklon e dopo un paio d’anni di smaltimenti sua moglie non ha retto più. Grave esaurimento nervoso, è diventata praticamente catatonica.
«Papà il tuo non c’è» disse Marco dall’interno della casa. L’adolescenza gli stava cambiando la voce e gli stava facendo crescere una scura peluria sotto il naso, la sua copia ne era ancora priva.
«Cerca in camera da letto» risposi «anche sotto il letto». Un paio di volte l’avevo trovata lì.
Sara era irritata come al solito, come ogni volta che vedeva la sua copia, che vedeva se stessa com’era prima dell’intervento al seno. E di quello alle labbra. E agli zigomi. Prima del culo nuovo.
Prima che si trasformasse in una caricatura di pornodiva. Quando mi piaceva.
Cacciò il corpo nel sacco con cattiveria e lo trascinò in giardino mentre io stavo ancora spogliando la copia di Marco, che curiosamente si era infilata uno dei suoi pigiami, a volte lo fanno. Era leggero come tutte le copie. Mancavano del peso della realtà aveva detto una volta un filosofo in una trasmissione televisiva. Anche un team del CERN aveva dato una spiegazione in termini di fisica quantistica e spazi olografici ma preferisco quella del filosofo, almeno posso far finta di capirla.
Portai il sacco in giardino, da lì a poco sarebbe passato il camion dell’AMA a ritirare i sacchi del quartiere.
Chiamai mio figlio «Marco, hai fatto?»
Si affacciò dal piano di sopra «Non lo trovo papà!»
Era un problema. In dieci anni nessuno ci aveva capito realmente qualcosa e l’unica cosa che il governo era stato in grado di fare era quel costoso servizio di smaltimento. Se la polizia municipale avesse trovato il mio simulacro a spasso da qualche parte mi sarei beccato una multa.
Sara mi guardò con aria di sufficienza «Meglio se vai ad aiutarlo» disse ma il senso della frase era più del tipo tuo figlio è un incapace.
La madre di Marco era morta quando lui aveva nove anni e io mi ero risposato dopo meno di un anno. Lui e Sara non si erano mai piaciuti e le cose sarebbero state anche peggiori se avesse mai scoperto che era la mia amante da molto prima che lui nascesse.
Avevo sposato Sara nella speranza di placarle le paranoie, lei non amava essere al secondo posto, l’aveva fatto per troppo tempo mi disse una volta. Speravo che l’ufficialità di un matrimonio potesse tranquillizzarla. Avevo confuso il sesso con la comprensione.
«Marco continua a controllare dentro» gli gridai da sotto «io vado a fare un giro nei dintorni nel caso si fosse allontanato» e tanti saluti allo smaltimento silenzioso. Andai in garage e soppesai indeciso la mazza da baseball e un’accetta. Presi la mazza, meno da pulire dopo. Doveva essere uscito prima del gas. Cominciai il giro della casa.
Trovai le tracce nel giardino posteriore, aveva calpestato i gerani di Sara e attraversato la siepe divisoria fino al giardino dell’ingegner Moneta. A volte lo fanno, cominciano a camminare e tirano dritto. Una parodia di scopo data dalla parodia di cervello che possedevano.
Mi infilai nel cespuglio e sbucai nel giardino di Moneta. L’ingegnere stava trascinando un sacco col logo del comune, la sua copia. Per qualche motivo non compaiono mai copie di persone molto malate, come la signora Moneta. Mi vide da lontano e indicò un punto in fondo al suo giardino, una sagoma a terra sotto l’ombra di un gazebo.
Ringraziai con un cenno e mi avvicinai al gazebo. Mi ripromisi di ringraziarlo di persona, mi aveva evitato una bella rogna. Sfilai la busta di plastica dalla testa della copia. Avvertii una leggera inquietudine nel chiudergli gli occhi, in fondo era la mia faccia, ma una imitazione di vita può solo finire con una imitazione di morte e quindi con una imitazione di cordoglio ficcai il corpo nel sacco e me lo caricai in spalla.
Decisi di non passare per la siepe, il sacco si sarebbe potuto impigliare e rompersi, ma di fare il giro da davanti. Appena in tempo, il camion del comune era fermo davanti alla casa dell’ingegnere e la nostra era la prossima. Sorpassai il netturbino che scendeva dal mezzo e a passo veloce arrivai nel nostro vialetto. Misi giù il sacco vicino agli altri due. Da casa mi arrivavano le urla di Sara verso Marco, come ogni mattina prima di colazione lo rimproverava per qualcosa. Vestiti, capelli, scuola o amici. Non c’era cosa che lui facesse o non facesse che non la irritasse.
La strategia di Marco in questi casi coincideva con la mia: fare finta di niente e ignorarla fino a sfuriata esaurita. Lo vidi uscire con zaino e skateboard lasciando la porta aperta seguito da Sara già pronta per una mattinata di jogging. Mi passò accanto sorridendo, le grida di Sara ancora arrabbiata gli scivolavano addosso come acqua. Lo invidiavo per quello «Ciao Marco»
«Ciao pa’, stasera sto a una festa da Guido e dormo lì» aspettò un cenno da parte mia.
«Ok, divertiti»
Mise giù lo skate e partì. Lo seguii con lo sguardo mentre superava la casa del vicino. Il camion era ancora lì col motore acceso. Dalla casa uscirono il netturbino e l’ingegner Moneta, li vidi stringersi la mano e salutarsi. Poi lo spazzino salì sul camion e ripartì verso la nostra casa.
Sara era dietro di me. Sentivo il suo sguardo dietro la nuca come due spilli da agopuntura. Volevo evitare che la rabbia che Marco aveva schivato cambiasse bersaglio su di me e mi girai col mio migliore sorriso. Non funzionò.
«Tuo figlio» quanto le piaceva iniziare le frasi così «non mi rispetta»
«Dai Sara, non è vero. E’ solo che ha quindici anni, anche io ero così»
«Sandro, mi ha spiato dalla serratura del bagno! »
Beh, con quel corpo da attrice porno che si era fatta scolpire a suon di bisturi non è che poteva aspettarsi altro dalle tempeste ormonali di un adolescente, pensai.
«Questo non va bene» dissi cercando di simulare almeno un po’ di rabbia e scandalo «Appena torna lo sistemo io»
Sbuffò soddisfatta «Vado a correre adesso, ne riparliamo questa sera» e si avviò senza nemmeno un saluto.
Il netturbino nel frattempo aveva caricato i leggeri sacchi sul camion ed atteso la fine del breve alterco per avvicinarsi con il POS sul quale era già inserito il conto per i tre corpi.
«Buongiorno signor Marchetti»
«Buongiorno»
Strisciai la carta di credito nel POS. Finalmente la giornata iniziava anche per me.
Prima di andare in ufficio decisi di passare dal vicino per offrirmi di riparare, pagando un giardiniere magari, la siepe danneggiata dalla mia copia. Trovai la signora Moneta davanti all’ingresso, sul dondolo che avevano in veranda. Poveretta, si dondolava lentamente, con lo sguardo nel vuoto. Magra e bionda, vestita solo di una vestaglia bianca. Sembrava quasi un fantasma.
La porta si aprì un attimo prima che potessi suonare il campanello. L’ingegnere con un mano un grosso panino e un bicchiere di latte quasi mi finì addosso. Fu una conversazione piuttosto breve, Moneta mi ringraziò per l’offerta che trovava molto gentile ma rifiutò categoricamente, ci avrebbe pensato lui da solo. Ci salutammo e stavo per andarmene quando sentii cigolare il dondolo, mi voltai e vidi la signora Moneta in piedi che mi fissava.
Disse qualcosa e fece un passo verso di me e inciampò cadendo in avanti. Riuscii a chinarmi in tempo e a sorreggerla. A giudicare dal peso sotto quella vestaglia doveva esserci una persona molto denutrita. Il marito mi scansò e subito la prese sottobraccio e la guidò all’interno.
Azzardai un «Serve aiuto?» affacciandomi sull’uscio.
«Non si preoccupi, grazie»
Lo vidi guidare la moglie fino ad un divano e poi tornare da me.
«Mi scusi ma quando comincia a fare così può diventare imbarazzante. Le auguro buona giornata.» E chiuse la porta.
Passai l’ennesima giornata inutile in ufficio, le voci di vendita dell’azienda erano sempre più concrete e nessuno rischiava iniziative nel timore che non fossero gradite ai nuovi proprietari. Inoltre non avrei comunque potuto concludere nulla: continuava a venirmi in mente la signora Moneta. Leggera. Denutrita. Ma non sembrava tanto magra.
Era leggera. Troppo leggera.
Stavo facendo l’ultima pausa caffè quando finalmente la mia inquietudine si condensò sul titolo su un quotidiano gratuito lasciato lì da qualche collega: «Il bordello dei cloni: arrestata tenutaria e distrutte diciotto sue copie»
Possibile che la leggerezza della signora Moneta non fosse magrezza? Sentii un brivido. Non era possibile, mi dicevo tornando a casa, eppure avevo sentito il peso e visto la reazione dell’ingegnere quando l’avevo sorretta. Forse avrei dovuto avvisare la polizia, magari dietro c’era un delitto, a volte dietro un tranquillo vicino si nasconde un serial killer.
Forse avevo visto troppi telefilm fatto sta che quando, dalla macchina, lo vidi davanti la porta di casa mia ebbi la tentazione di tirare dritto fino alla stazione di polizia. Invece mi fermai.
Mi salutò con la mano e si avvicinò. Scesi dalla macchina.
«Buonasera ingegnere. Le serve qualcosa» il tremolio della mia voce era chiaramente avvertibile.
«Buonasera» aveva uno sguardo triste «Ho bisogno di parlarle»
Malamente finsi di sorpresa «Certo. Mi dica.»
«Non qui. Per favore possiamo andare a casa mia»
Se non avesse avuto quell’aria afflitta avrei rifiutato, mi sarei lanciato dentro e dopo aver chiuso a chiave avrei chiamato la polizia. Esitai.
«La prego» insistette «ho bisogno di spiegarle alcune cose»
«Va bene»
Arrivammo in silenzio fino alla porta di casa sua. Moneta aprì la porta. La signora, la copia, ormai ero sicuro, era seduta sul divano nella stessa posizione in cui l’aveva messa quella mattina.
L’ingegnere mi indicò una poltrona e io mi sedetti, la curiosità aveva preso il sopravvento sulla paura. Non riuscivo a provare paura di un uomo così visibilmente afflitto. Dal mobile bar tirò fuori una bottiglia senza etichetta, forse grappa, e se ne versò un bicchierino.
Lo scolò tutto di un fiato «Devo spiegarle alcune cose riguardo a mia moglie»
«Se crede…» non potei fare a meno di gettare uno sguardo alla cosa sul divano.
«No, devo. Quando le è quasi caduta addosso ho capito che avrebbe intuito la verità e non voglio che pensi male di me.»
«E’ una copia» dissi
Si versò un altro bicchiere «Sì ed è tutto quello che mi rimane di lei»
Si verso un altro bicchiere. Aspettai che continuasse.
«E’ successo tutto prima che ci trasferissimo qui. Abitavamo in un piccolo appartamento troppo piccolo per un impianto Zyklon quindi dovevamo liberarci delle copie da soli. Lei non riusciva a farlo, la capivo neanche per me era facile.»
Annuii e per un attimo mi persi nel ricordo del periodo prima del nostro impianto. Nonostante le rassicurazione di governo, scienziati, preti sul fatto che le copie non fossero effettivamente vive, senzienti, alla fine la sensazione è di uccidere una persona. E non era certo una bella sensazione. Un po’ di vita c’era, in fondo le copie mangiano se vengono imboccate, respirano e ogni tanto si muovono. Alcune organizzazioni umanitarie e ecologiste tentarono di opporsi alle eliminazioni anche con un certo successo ma il disastro del Venezuela diede una svolta in tutto il mondo. Le immagini della catastrofe trasmesse dai TG furono orribili, anche io ebbi degli incubi nei quali rivedevo le riprese aeree di Caracas, sepolta sotto dozzine di strati di corpi in decomposizione.
Mentre fantasticavo l’ingegnere aveva continuato a parlare.
«…quel giorno feci tardi dal lavoro. Troppo tardi. Trovai mia moglie sul dondolo con un libro in grembo, addormentata. Mi avvicinai, le diedi un bacio sulla guancia e senza aspettare la sua reazione le dissi che avevo preso un appuntamento per l’istallazione dell’impianto Zyklon»
Una lacrima solitaria gli scivolò lungo la guancia «Non reagì. Non era lei. Non era riuscita ad eliminare la copia. Si era impiccata nel nostro salotto.»
«Credo di aver bisogno anche io di un bicchiere ingegnere» dissi. Versò un bicchiere anche a me, decisamente grappa e decisamente troppa. Ne bevvi un sorso e chiesi «Perché me lo ha raccontato?»
«Spero di convincerla a non denunciarmi. Se lo facesse la polizia distruggerebbe Serena» esitò «…la sua copia»
«Finirebbe in prigione»
«Non è la galera che mi spaventa signor Marchetti, è il pensiero di perderla. Di nuovo.»
Sprofondò nella poltrona, scosso. Rimanemmo in silenzio per alcuni minuti, c’era una domanda che non avevo il coraggio di fare. La grappa venne in mio aiuto.
La scolai tutta di un fiato «Cosa è successo al corpo di sua moglie?»
«Gli spazzini» rispose
«L’ha messa nel sacco per gli spazzini? Non può essere. Si sarebbero accorti del peso.»
«Gli spazzini, li ho pagati.» ripetè «Con i soldi che avevo messo da parte per l’impianto Zyklon, quattromila euro.»
Continuammo a bere per un po’, in silenzio. Ogni tanto la cosa sul divano girava una pagina del libro che aveva in grembo.
Uscii da lì scosso. Moneta mi faceva sinceramente pena. Gli promisi che non l’avrei denunciato. Che non avevo nulla da denunciare visto che per quanto mi riguardava la signora Moneta era viva anche se soffriva di una terribile depressione.
Quando tornai a casa Sara aveva, come sempre, già cenato con le sue disgustose pappette di ecosoia dietetiche. Mi preparai una pasta molto abbondante e molto condita, alla faccia della dieta, e mangiai direttamente in cucina.
Al telegiornale le solite notizie: una nuova guerra in medio oriente, elezioni truccate e le polemiche per il nuovo inceneritore nazionale di copie. Le previsioni meteo annunciarono un probabile evento-copie durante la notte, così dopo aver finito di mangiare preparai due sacchi in garage. Marco avrebbe dormito dai suoi amici, per lui non serviva.
Continuai a guardare la tv fino a tardi, saltando da un canale all’altro senza realmente seguire nulla. La mia intenzione era di evitare ogni possibile conversazione con Sara, di aspettare finche non fosse addormentata. Andò a finire che io mi addormentai sul divano.
Le urla di mia moglie mi strapparono da un sonno insolitamente tranquillo. Scattai in piedi ma appena compresi che erano urla di rabbia mi passò ogni voglia di andare a controllare.
Feci inutilmente finta di non sentire. Inutilmente perché lei entrò in salone, furiosa come un erinni «Sai cosa ha fatto quel pervertito di tuo figlio?»
«Qualcosa di terribile scommetto»
Mi trascinò fino alla stanza di Marco. Lui si stava frettolosamente vestendo, evidentemente era tornato a casa prima «Ciao pa’. Scusasonoinritardociao.»
Era rosso di imbarazzo ma aveva anche quell’espressione divertita di quando ne faceva una grossa.
Lo lasciai uscire trattenendo le mani di Sara protese come artigli. Ha buon gusto in fatto di donne, come me, pensai guardando la copia di Sara, ancora a carponi sul letto di Marco. Come l’aveva messa lui. Trovai divertente il fatto che la copia di Sara avesse concesso al figlio ciò che l’originale non aveva mai concesso al padre.
Ovviamente il mio sorriso fece andare fuori di testa Sara che si chiuse platealmente in bagno a far finta di piangere. Fingeva, ormai lo sapevo. Ormai tutto di lei era finzione. Il suo simulacro era più sincero, non era nulla più di una copia ma non faceva nulla per nasconderlo.
Le dissi da dietro la porta che avrei sistemato tutto. Andai in camera da letto, aprii la cassaforte e ne tirai fuori i diecimila euro che tenevamo lì come emergenza. Poi scesi in garage portandomi dietro la copia di Sara. Mi assicurai che la mia copia e quella di Marco fossero in casa e accesi l’impianto Zyklon. Porte e finestre si sigillarono. Sarà urlò una sola volta prima che il gas facesse effetto. Attivai la ventilazione. Portai la copia in camera da letto e la vestii.
Poi portai fuori i tre sacchi, uno visibilmente più pesante. Anche l’ingegnere stava smaltendo la sua copia. Mi vide e mi salutò con la mano, incerto. Ammucchiai i sacchi sul vialetto, ricambiai il saluto.
Gli spazzini sarebbero passati a breve.
Ma che t’eri fumato?
E’ un racconto che non si riesce a smettere di leggere. E come spesso nei tuoi scritti il finale è scioccante. Bravo!