Smal­ti­men­to copie

Mi tirai su il bave­ro del giac­co­ne per ripa­rar­mi dall’umida alba di Casal Paloc­co, men­tre osser­va­vo dal giar­di­no i due cada­ve­ri raf­fred­dar­si sul nostro diva­no. Il gas ave­va fun­zio­na­to rego­lar­men­te. Anche se non era­no real­men­te loro, anche se non era­no altro che copie, vede­re i vol­ti dei pro­pri cari mor­ti tut­te le mat­ti­ne è sem­pre una cosa che scuo­te den­tro. Non mi ci abi­tue­rò mai.

Mia moglie e mio figlio tor­na­ro­no dal gara­ge con i tre sac­chi per cada­ve­ri col logo del comu­ne. La leg­ge era chia­ra «Ogni cit­ta­di­no è per­so­nal­men­te respon­sa­bi­le del cor­ret­to smal­ti­men­to dei pro­pri simulacri».

Feci par­ti­re l’impianto di ven­ti­la­zio­ne col tele­co­man­do e dopo un paio di minu­ti entram­mo. L’impianto Ziklon era costa­to parec­chio ma con­si­de­ran­do l’alternativa era val­so ogni euro spe­so. Non è pia­ce­vo­le eli­mi­na­re le copie e dover­lo fare di per­so­na può esse­re trau­ma­ti­co. L’ingegner Mone­ta, il nostro vici­no, non ha mai volu­to un impian­to Ziklon e dopo un paio d’anni di smal­ti­men­ti sua moglie non ha ret­to più. Gra­ve esau­ri­men­to ner­vo­so, è diven­ta­ta pra­ti­ca­men­te catatonica.

«Papà il tuo non c’è» dis­se Mar­co dall’interno del­la casa. L’adolescenza gli sta­va cam­bian­do la voce e gli sta­va facen­do cre­sce­re una scu­ra pelu­ria sot­to il naso, la sua copia ne era anco­ra priva.

«Cer­ca in came­ra da let­to» rispo­si «anche sot­to il let­to». Un paio di vol­te l’avevo tro­va­ta lì.

Sara era irri­ta­ta come al soli­to, come ogni vol­ta che vede­va la sua copia, che vede­va se stes­sa com’era pri­ma dell’intervento al seno. E di quel­lo alle lab­bra. E agli zigo­mi. Pri­ma del culo nuovo.

Pri­ma che si tra­sfor­mas­se in una cari­ca­tu­ra di por­no­di­va. Quan­do mi piaceva.

Cac­ciò il cor­po nel sac­co con cat­ti­ve­ria e lo tra­sci­nò in giar­di­no men­tre io sta­vo anco­ra spo­glian­do la copia di Mar­co, che curio­sa­men­te si era infi­la­ta uno dei suoi pigia­mi, a vol­te lo fan­no. Era leg­ge­ro come tut­te le copie. Man­ca­va­no del peso del­la real­tà ave­va det­to una vol­ta un filo­so­fo in una tra­smis­sio­ne tele­vi­si­va. Anche un team del CERN ave­va dato una spie­ga­zio­ne in ter­mi­ni di fisi­ca quan­ti­sti­ca e spa­zi olo­gra­fi­ci ma pre­fe­ri­sco quel­la del filo­so­fo, alme­no pos­so far fin­ta di capirla.

Por­tai il sac­co in giar­di­no, da lì a poco sareb­be pas­sa­to il camion dell’AMA a riti­ra­re i sac­chi del quartiere.

Chia­mai mio figlio «Mar­co, hai fatto?»

Si affac­ciò dal pia­no di sopra «Non lo tro­vo papà!»

Era un pro­ble­ma. In die­ci anni nes­su­no ci ave­va capi­to real­men­te qual­co­sa e l’unica cosa che il gover­no era sta­to in gra­do di fare era quel costo­so ser­vi­zio di smal­ti­men­to. Se la poli­zia muni­ci­pa­le aves­se tro­va­to il mio simu­la­cro a spas­so da qual­che par­te mi sarei bec­ca­to una multa.

Sara mi guar­dò con aria di suf­fi­cien­za «Meglio se vai ad aiu­tar­lo» dis­se ma il sen­so del­la fra­se era più del tipo tuo figlio è un incapace.

La madre di Mar­co era mor­ta quan­do lui ave­va nove anni e io mi ero rispo­sa­to dopo meno di un anno. Lui e Sara non si era­no mai pia­ciu­ti e le cose sareb­be­ro sta­te anche peg­gio­ri se aves­se mai sco­per­to che era la mia aman­te da mol­to pri­ma che lui nascesse.

Ave­vo spo­sa­to Sara nel­la spe­ran­za di pla­car­le le para­no­ie, lei non ama­va esse­re al secon­do posto, l’aveva fat­to per trop­po tem­po mi dis­se una vol­ta. Spe­ra­vo che l’ufficialità di un matri­mo­nio potes­se tran­quil­liz­zar­la. Ave­vo con­fu­so il ses­so con la comprensione.

«Mar­co con­ti­nua a con­trol­la­re den­tro» gli gri­dai da sot­to «io vado a fare un giro nei din­tor­ni nel caso si fos­se allon­ta­na­to» e tan­ti salu­ti allo smal­ti­men­to silen­zio­so. Andai in gara­ge e sop­pe­sai inde­ci­so la maz­za da base­ball e un’accetta. Pre­si la maz­za, meno da puli­re dopo. Dove­va esse­re usci­to pri­ma del gas. Comin­ciai il giro del­la casa.

Tro­vai le trac­ce nel giar­di­no poste­rio­re, ave­va cal­pe­sta­to i gera­ni di Sara e attra­ver­sa­to la sie­pe divi­so­ria fino al giar­di­no dell’ingegner Mone­ta. A vol­te lo fan­no, comin­cia­no a cam­mi­na­re e tira­no drit­to. Una paro­dia di sco­po data dal­la paro­dia di cer­vel­lo che possedevano.

Mi infi­lai nel cespu­glio e sbu­cai nel giar­di­no di Mone­ta. L’ingegnere sta­va tra­sci­nan­do un sac­co col logo del comu­ne, la sua copia. Per qual­che moti­vo non com­pa­io­no mai copie di per­so­ne mol­to mala­te, come la signo­ra Mone­ta. Mi vide da lon­ta­no e indi­cò un pun­to in fon­do al suo giar­di­no, una sago­ma a ter­ra sot­to l’ombra di un gazebo.

Rin­gra­ziai con un cen­no e mi avvi­ci­nai al gaze­bo. Mi ripro­mi­si di rin­gra­ziar­lo di per­so­na, mi ave­va evi­ta­to una bel­la rogna. Sfi­lai la busta di pla­sti­ca dal­la testa del­la copia. Avver­tii una leg­ge­ra inquie­tu­di­ne nel chiu­der­gli gli occhi, in fon­do era la mia fac­cia, ma una imi­ta­zio­ne di vita può solo fini­re con una imi­ta­zio­ne di mor­te e quin­di con una imi­ta­zio­ne di cor­do­glio fic­cai il cor­po nel sac­co e me lo cari­cai in spalla.

Deci­si di non pas­sa­re per la sie­pe, il sac­co si sareb­be potu­to impi­glia­re e rom­per­si, ma di fare il giro da davan­ti. Appe­na in tem­po, il camion del comu­ne era fer­mo davan­ti alla casa dell’ingegnere e la nostra era la pros­si­ma. Sor­pas­sai il net­tur­bi­no che scen­de­va dal mez­zo e a pas­so velo­ce arri­vai nel nostro via­let­to. Misi giù il sac­co vici­no agli altri due. Da casa mi arri­va­va­no le urla di Sara ver­so Mar­co, come ogni mat­ti­na pri­ma di cola­zio­ne lo rim­pro­ve­ra­va per qual­co­sa. Vesti­ti, capel­li, scuo­la o ami­ci. Non c’era cosa che lui faces­se o non faces­se che non la irritasse.

La stra­te­gia di Mar­co in que­sti casi coin­ci­de­va con la mia: fare fin­ta di nien­te e igno­rar­la fino a sfu­ria­ta esau­ri­ta. Lo vidi usci­re con zai­no e ska­te­board lascian­do la por­ta aper­ta segui­to da Sara già pron­ta per una mat­ti­na­ta di jog­ging. Mi pas­sò accan­to sor­ri­den­do, le gri­da di Sara anco­ra arrab­bia­ta gli sci­vo­la­va­no addos­so come acqua. Lo invi­dia­vo per quel­lo «Ciao Marco»

«Ciao pa’, sta­se­ra sto a una festa da Gui­do e dor­mo lì» aspet­tò un cen­no da par­te mia.

«Ok, diver­ti­ti»

Mise giù lo ska­te e par­tì. Lo seguii con lo sguar­do men­tre supe­ra­va la casa del vici­no. Il camion era anco­ra lì col moto­re acce­so. Dal­la casa usci­ro­no il net­tur­bi­no e l’ingegner Mone­ta, li vidi strin­ger­si la mano e salu­tar­si. Poi lo spaz­zi­no salì sul camion e ripar­tì ver­so la nostra casa.

Sara era die­tro di me. Sen­ti­vo il suo sguar­do die­tro la nuca come due spil­li da ago­pun­tu­ra. Vole­vo evi­ta­re che la rab­bia che Mar­co ave­va schi­va­to cam­bias­se ber­sa­glio su di me e mi girai col mio miglio­re sor­ri­so. Non funzionò.

«Tuo figlio» quan­to le pia­ce­va ini­zia­re le fra­si così «non mi rispetta»

«Dai Sara, non è vero. E’ solo che ha quin­di­ci anni, anche io ero così»

«San­dro, mi ha spia­to dal­la ser­ra­tu­ra del bagno! »

Beh, con quel cor­po da attri­ce por­no che si era fat­ta scol­pi­re a suon di bistu­ri non è che pote­va aspet­tar­si altro dal­le tem­pe­ste ormo­na­li di un ado­le­scen­te, pensai.

«Que­sto non va bene» dis­si cer­can­do di simu­la­re alme­no un po’ di rab­bia e scan­da­lo «Appe­na tor­na lo siste­mo io»

Sbuf­fò sod­di­sfat­ta «Vado a cor­re­re ades­so, ne ripar­lia­mo que­sta sera» e si avviò sen­za nem­me­no un saluto.

Il net­tur­bi­no nel frat­tem­po ave­va cari­ca­to i leg­ge­ri sac­chi sul camion ed atte­so la fine del bre­ve alter­co per avvi­ci­nar­si con il POS sul qua­le era già inse­ri­to il con­to per i tre corpi.

«Buon­gior­no signor Marchetti»

«Buon­gior­no»

Stri­sciai la car­ta di cre­di­to nel POS. Final­men­te la gior­na­ta ini­zia­va anche per me.

Pri­ma di anda­re in uffi­cio deci­si di pas­sa­re dal vici­no per offrir­mi di ripa­ra­re, pagan­do un giar­di­nie­re maga­ri, la sie­pe dan­neg­gia­ta dal­la mia copia. Tro­vai la signo­ra Mone­ta davan­ti all’ingresso, sul don­do­lo che ave­va­no in veran­da. Pove­ret­ta, si don­do­la­va len­ta­men­te, con lo sguar­do nel vuo­to. Magra e bion­da, vesti­ta solo di una vesta­glia bian­ca. Sem­bra­va qua­si un fantasma.

La por­ta si aprì un atti­mo pri­ma che potes­si suo­na­re il cam­pa­nel­lo. L’ingegnere con un mano un gros­so pani­no e un bic­chie­re di lat­te qua­si mi finì addos­so. Fu una con­ver­sa­zio­ne piut­to­sto bre­ve, Mone­ta mi rin­gra­ziò per l’offerta che tro­va­va mol­to gen­ti­le ma rifiu­tò cate­go­ri­ca­men­te, ci avreb­be pen­sa­to lui da solo. Ci salu­tam­mo e sta­vo per andar­me­ne quan­do sen­tii cigo­la­re il don­do­lo, mi vol­tai e vidi la signo­ra Mone­ta in pie­di che mi fissava.

Dis­se qual­co­sa e fece un pas­so ver­so di me e inciam­pò caden­do in avan­ti. Riu­scii a chi­nar­mi in tem­po e a sor­reg­ger­la. A giu­di­ca­re dal peso sot­to quel­la vesta­glia dove­va esser­ci una per­so­na mol­to denu­tri­ta. Il mari­to mi scan­sò e subi­to la pre­se sot­to­brac­cio e la gui­dò all’interno.

Azzar­dai un «Ser­ve aiu­to?» affac­cian­do­mi sull’uscio.

«Non si pre­oc­cu­pi, grazie»

Lo vidi gui­da­re la moglie fino ad un diva­no e poi tor­na­re da me.

«Mi scu­si ma quan­do comin­cia a fare così può diven­ta­re imba­raz­zan­te. Le augu­ro buo­na gior­na­ta.» E chiu­se la porta.

Pas­sai l’ennesima gior­na­ta inu­ti­le in uffi­cio, le voci di ven­di­ta dell’azienda era­no sem­pre più con­cre­te e nes­su­no rischia­va ini­zia­ti­ve nel timo­re che non fos­se­ro gra­di­te ai nuo­vi pro­prie­ta­ri. Inol­tre non avrei comun­que potu­to con­clu­de­re nul­la: con­ti­nua­va a venir­mi in men­te la signo­ra Mone­ta. Leg­ge­ra. Denu­tri­ta. Ma non sem­bra­va tan­to magra.

Era leg­ge­ra. Trop­po leggera.

Sta­vo facen­do l’ultima pau­sa caf­fè quan­do final­men­te la mia inquie­tu­di­ne si con­den­sò sul tito­lo su un quo­ti­dia­no gra­tui­to lascia­to lì da qual­che col­le­ga: «Il bor­del­lo dei clo­ni: arre­sta­ta tenu­ta­ria e distrut­te diciot­to sue copie»

Pos­si­bi­le che la leg­ge­rez­za del­la signo­ra Mone­ta non fos­se magrez­za? Sen­tii un bri­vi­do. Non era pos­si­bi­le, mi dice­vo tor­nan­do a casa, eppu­re ave­vo sen­ti­to il peso e visto la rea­zio­ne dell’ingegnere quan­do l’avevo sor­ret­ta. For­se avrei dovu­to avvi­sa­re la poli­zia, maga­ri die­tro c’era un delit­to, a vol­te die­tro un tran­quil­lo vici­no si nascon­de un serial killer.

For­se ave­vo visto trop­pi tele­film fat­to sta che quan­do, dal­la mac­chi­na, lo vidi davan­ti la por­ta di casa mia ebbi la ten­ta­zio­ne di tira­re drit­to fino alla sta­zio­ne di poli­zia. Inve­ce mi fermai.

Mi salu­tò con la mano e si avvi­ci­nò. Sce­si dal­la macchina.

«Buo­na­se­ra inge­gne­re. Le ser­ve qual­co­sa» il tre­mo­lio del­la mia voce era chia­ra­men­te avvertibile.

«Buo­na­se­ra» ave­va uno sguar­do tri­ste «Ho biso­gno di parlarle»

Mala­men­te fin­si di sor­pre­sa «Cer­to. Mi dica.»

«Non qui. Per favo­re pos­sia­mo anda­re a casa mia»

Se non aves­se avu­to quell’aria afflit­ta avrei rifiu­ta­to, mi sarei lan­cia­to den­tro e dopo aver chiu­so a chia­ve avrei chia­ma­to la poli­zia. Esitai.

«La pre­go» insi­stet­te «ho biso­gno di spie­gar­le alcu­ne cose»

«Va bene»

Arri­vam­mo in silen­zio fino alla por­ta di casa sua. Mone­ta aprì la por­ta. La signo­ra, la copia, ormai ero sicu­ro, era sedu­ta sul diva­no nel­la stes­sa posi­zio­ne in cui l’aveva mes­sa quel­la mattina.

L’ingegnere mi indi­cò una pol­tro­na e io mi sedet­ti, la curio­si­tà ave­va pre­so il soprav­ven­to sul­la pau­ra. Non riu­sci­vo a pro­va­re pau­ra di un uomo così visi­bil­men­te afflit­to. Dal mobi­le bar tirò fuo­ri una bot­ti­glia sen­za eti­chet­ta, for­se grap­pa, e se ne ver­sò un bicchierino.

Lo sco­lò tut­to di un fia­to «Devo spie­gar­le alcu­ne cose riguar­do a mia moglie»

«Se cre­de…» non potei fare a meno di get­ta­re uno sguar­do alla cosa sul divano.

«No, devo. Quan­do le è qua­si cadu­ta addos­so ho capi­to che avreb­be intui­to la veri­tà e non voglio che pen­si male di me.»

«E’ una copia» dissi

Si ver­sò un altro bic­chie­re «Sì ed è tut­to quel­lo che mi rima­ne di lei»

Si ver­so un altro bic­chie­re. Aspet­tai che continuasse.

«E’ suc­ces­so tut­to pri­ma che ci tra­sfe­ris­si­mo qui. Abi­ta­va­mo in un pic­co­lo appar­ta­men­to trop­po pic­co­lo per un impian­to Zyklon quin­di dove­va­mo libe­rar­ci del­le copie da soli. Lei non riu­sci­va a far­lo, la capi­vo nean­che per me era facile.»

Annuii e per un atti­mo mi per­si nel ricor­do del perio­do pri­ma del nostro impian­to. Nono­stan­te le ras­si­cu­ra­zio­ne di gover­no, scien­zia­ti, pre­ti sul fat­to che le copie non fos­se­ro effet­ti­va­men­te vive, sen­zien­ti, alla fine la sen­sa­zio­ne è di ucci­de­re una per­so­na. E non era cer­to una bel­la sen­sa­zio­ne. Un po’ di vita c’era, in fon­do le copie man­gia­no se ven­go­no imboc­ca­te, respi­ra­no e ogni tan­to si muo­vo­no. Alcu­ne orga­niz­za­zio­ni uma­ni­ta­rie e eco­lo­gi­ste ten­ta­ro­no di oppor­si alle eli­mi­na­zio­ni anche con un cer­to suc­ces­so ma il disa­stro del Vene­zue­la die­de una svol­ta in tut­to il mon­do. Le imma­gi­ni del­la cata­stro­fe tra­smes­se dai TG furo­no orri­bi­li, anche io ebbi degli incu­bi nei qua­li rive­de­vo le ripre­se aeree di Cara­cas, sepol­ta sot­to doz­zi­ne di stra­ti di cor­pi in decomposizione.

Men­tre fan­ta­sti­ca­vo l’ingegnere ave­va con­ti­nua­to a parlare.

«…quel gior­no feci tar­di dal lavo­ro. Trop­po tar­di. Tro­vai mia moglie sul don­do­lo con un libro in grem­bo, addor­men­ta­ta. Mi avvi­ci­nai, le die­di un bacio sul­la guan­cia e sen­za aspet­ta­re la sua rea­zio­ne le dis­si che ave­vo pre­so un appun­ta­men­to per l’istallazione dell’impianto Zyklon»

Una lacri­ma soli­ta­ria gli sci­vo­lò lun­go la guan­cia «Non rea­gì. Non era lei. Non era riu­sci­ta ad eli­mi­na­re la copia. Si era impic­ca­ta nel nostro salotto.»

«Cre­do di aver biso­gno anche io di un bic­chie­re inge­gne­re» dis­si. Ver­sò un bic­chie­re anche a me, deci­sa­men­te grap­pa e deci­sa­men­te trop­pa. Ne bev­vi un sor­so e chie­si «Per­ché me lo ha raccontato?»

«Spe­ro di con­vin­cer­la a non denun­ciar­mi. Se lo faces­se la poli­zia distrug­ge­reb­be Sere­na» esi­tò «…la sua copia»

«Fini­reb­be in prigione»

«Non è la gale­ra che mi spa­ven­ta signor Mar­chet­ti, è il pen­sie­ro di per­der­la. Di nuovo.»

Spro­fon­dò nel­la pol­tro­na, scos­so. Rima­nem­mo in silen­zio per alcu­ni minu­ti, c’era una doman­da che non ave­vo il corag­gio di fare. La grap­pa ven­ne in mio aiuto.

La sco­lai tut­ta di un fia­to «Cosa è suc­ces­so al cor­po di sua moglie?»

«Gli spaz­zi­ni» rispose

«L’ha mes­sa nel sac­co per gli spaz­zi­ni? Non può esse­re. Si sareb­be­ro accor­ti del peso.»

«Gli spaz­zi­ni, li ho paga­ti.» ripe­tè «Con i sol­di che ave­vo mes­so da par­te per l’impianto Zyklon, quat­tro­mi­la euro.»

Con­ti­nuam­mo a bere per un po’, in silen­zio. Ogni tan­to la cosa sul diva­no gira­va una pagi­na del libro che ave­va in grembo.

Uscii da lì scos­so. Mone­ta mi face­va sin­ce­ra­men­te pena. Gli pro­mi­si che non l’avrei denun­cia­to. Che non ave­vo nul­la da denun­cia­re visto che per quan­to mi riguar­da­va la signo­ra Mone­ta era viva anche se sof­fri­va di una ter­ri­bi­le depressione.

Quan­do tor­nai a casa Sara ave­va, come sem­pre, già cena­to con le sue disgu­sto­se pap­pet­te di eco­so­ia die­te­ti­che. Mi pre­pa­rai una pasta mol­to abbon­dan­te e mol­to con­di­ta, alla fac­cia del­la die­ta, e man­giai diret­ta­men­te in cucina.

Al tele­gior­na­le le soli­te noti­zie: una nuo­va guer­ra in medio orien­te, ele­zio­ni truc­ca­te e le pole­mi­che per il nuo­vo ince­ne­ri­to­re nazio­na­le di copie. Le pre­vi­sio­ni meteo annun­cia­ro­no un pro­ba­bi­le even­to-copie duran­te la not­te, così dopo aver fini­to di man­gia­re pre­pa­rai due sac­chi in gara­ge. Mar­co avreb­be dor­mi­to dai suoi ami­ci, per lui non serviva.

Con­ti­nuai a guar­da­re la tv fino a tar­di, sal­tan­do da un cana­le all’altro sen­za real­men­te segui­re nul­la. La mia inten­zio­ne era di evi­ta­re ogni pos­si­bi­le con­ver­sa­zio­ne con Sara, di aspet­ta­re fin­che non fos­se addor­men­ta­ta. Andò a fini­re che io mi addor­men­tai sul divano.

Le urla di mia moglie mi strap­pa­ro­no da un son­no inso­li­ta­men­te tran­quil­lo. Scat­tai in pie­di ma appe­na com­pre­si che era­no urla di rab­bia mi pas­sò ogni voglia di anda­re a controllare.

Feci inu­til­men­te fin­ta di non sen­ti­re. Inu­til­men­te per­ché lei entrò in salo­ne, furio­sa come un erin­ni «Sai cosa ha fat­to quel per­ver­ti­to di tuo figlio?»

«Qual­co­sa di ter­ri­bi­le scommetto»

Mi tra­sci­nò fino alla stan­za di Mar­co. Lui si sta­va fret­to­lo­sa­men­te vesten­do, evi­den­te­men­te era tor­na­to a casa pri­ma «Ciao pa’. Scusasonoinritardociao.»

Era ros­so di imba­raz­zo ma ave­va anche quell’espressione diver­ti­ta di quan­do ne face­va una grossa.

Lo lasciai usci­re trat­te­nen­do le mani di Sara pro­te­se come arti­gli. Ha buon gusto in fat­to di don­ne, come me, pen­sai guar­dan­do la copia di Sara, anco­ra a car­po­ni sul let­to di Mar­co. Come l’aveva mes­sa lui. Tro­vai diver­ten­te il fat­to che la copia di Sara aves­se con­ces­so al figlio ciò che l’originale non ave­va mai con­ces­so al padre.

Ovvia­men­te il mio sor­ri­so fece anda­re fuo­ri di testa Sara che si chiu­se pla­teal­men­te in bagno a far fin­ta di pian­ge­re. Fin­ge­va, ormai lo sape­vo. Ormai tut­to di lei era fin­zio­ne. Il suo simu­la­cro era più sin­ce­ro, non era nul­la più di una copia ma non face­va nul­la per nasconderlo.

Le dis­si da die­tro la por­ta che avrei siste­ma­to tut­to. Andai in came­ra da let­to, aprii la cas­sa­for­te e ne tirai fuo­ri i die­ci­mi­la euro che tene­va­mo lì come emer­gen­za. Poi sce­si in gara­ge por­tan­do­mi die­tro la copia di Sara. Mi assi­cu­rai che la mia copia e quel­la di Mar­co fos­se­ro in casa e acce­si l’impianto Zyklon. Por­te e fine­stre si sigil­la­ro­no. Sarà urlò una sola vol­ta pri­ma che il gas faces­se effet­to. Atti­vai la ven­ti­la­zio­ne. Por­tai la copia in came­ra da let­to e la vestii.

Poi por­tai fuo­ri i tre sac­chi, uno visi­bil­men­te più pesan­te. Anche l’ingegnere sta­va smal­ten­do la sua copia. Mi vide e mi salu­tò con la mano, incer­to. Ammuc­chiai i sac­chi sul via­let­to, ricam­biai il saluto.

Gli spaz­zi­ni sareb­be­ro pas­sa­ti a breve.

One Comment

  1. Febbraio 19, 2014
    Reply

    Ma che t’e­ri fumato?
    E’ un rac­con­to che non si rie­sce a smet­te­re di leg­ge­re. E come spes­so nei tuoi scrit­ti il fina­le è scioc­can­te. Bravo!

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